libri pubblicati

dalle prefazioni e presentazioni

incontri


(dalla prefazione dell’editore Egidio Lisci)

Una raccolta di racconti sul tema dell‘amore, del sesso e di una ricerca interiore che fra trasgressioni e sogni porta alla libertà, raggiunta con spontaneità, senza inganni e artefici.

 

 

CONfini mutevoli

 

(dalla prefazione del Prof. Giovanni Baldaccini) 

A proposito di “Confini mutevoli” di Maria Letizia Avato

Vi svelerò un segreto. Anzi no, altrimenti il mondo finisce.

Esiste infatti un luogo intangibile, un themenos, dove non è consentito entrare: racchiude l’anima nascosta in forma di segreto e tutta la sua difficoltà.  Se tuttavia quel segreto sfugge e lascia il corpo, questo resta senz’anima e non c’è scampo, a meno che il “segreto” non abbia pietà di noi e torni ad abitarci. Ma non è così semplice.

L’anima va svelata a poco a poco e spesso recalcitra, non accetta intrusioni. E allora si cela o sfugge e quell’assenza involontariamente percepita mette a nudo gli aspetti mutevoli della sua inquietudine, gli spigoli, il cammino sul filo del rasoio cui siamo consegnati lungo un sentiero che oscilla tra malessere e vuoto. Il senso di estraneità dell’anima da un mondo che predilige i corpi e nega senso si traduce in patologia. L’anima patologica, allora, in molte sfumature, dall’ossessione, al nulla che vanifica, dal sadismo che è sempre anche masochismo, alla psicosi. Alla morte, dove è semplice scivolare e trovare persino sollievo, perché il confine è labile, insicuro: il non luogo, non senso, non sentire è sempre dietro l’angolo. Morire è facile, perché non nascere nell’anima ci rende tutti abitanti di una vita apparente. L’anima confinata nel non dove di fatti involontari anela a un luogo “Altro”, diverso dal non senso quotidiano. Si dibatte, l’anima, e cerca l’”Altro” del se stessa che non risiede nei confini in cui è dispersa. Sconfina, allora e persino la patologia appare come rifugio dal vuoto che la opprime. Paradossalmente, il suo morire diventa ricerca di sé, di una possibilità  in cui finalmente esistere.

Negli ultimi racconti Eros e Thanatos giocano la loro partita lungo una serie di incontri in cui si inseguono e si cercano, anelando e rifiutando la reciproca presenza e finendo inevitabilmente per smarrirsi, confermando l’anima nella contraddizione che la opprime. Fino all’ultimo istante, quando l’anima, sperduta lungo i rami di un platano, contempla il proprio corpo morente tenuto artificialmente in vita, solo come corpo. Le sorride quel corpo e l’anima ritorna: nella morte che è compimento e sintesi.

Questo il segreto. Il themenos è allora forse la morte, ma Avato lo lascerà intuire solo alla fine, dopo un viaggio lungo le strade del senso mancante che l’autrice aiuterà a percorrere con conoscenza del ritmo narrativo ed eleganza di stile. Fino a dove? A un canto. E spesso non si può fare altro.                                                                            

 

 

sulle montagne russe

 

(dalla prefazione di Moussia Fantoli)

“Ammirate figli, siamo pronti a salire con voi sulle montagne russe, nonostante il terrore ci stia divorando”.

Con queste parole si chiude il libro di Maria Letizia Avato che proprio dalle montagne russe trae il titolo.

Opera originale, intensa, un dialogo a due voci di cui la più piccola – ma solo per età –è la più loquace nella sensibile, profonda descrizione che ne fa la madre.

“I pensieri non fanno rumore” scrive l’autrice, eppure in questo libro sono più potenti di un rullo di tamburi perché svegliano l’attenzione, suscitano mille interrogativi, mille intuizioni, mille dubbi.

Un dialogo madre-figlio avviato sin dai primi momenti della conferma che lui è lì, minuscola scintilla strappata dal firmamento dell’eternità per scendere sulla terra.

Nella tumultuosa euforia della certezza del diventare madre, l’autrice rivela il ruolo tutto particolare della donna come custode della vita, come terra madre nella cui oscurità il seme germina e si trasforma prima di venire alla luce.

Gli Egizi raffiguravano gli dei e le dee con in mano la croce ansata detta anche chiave della vita, il geroglifico ankh. Esso rappresenta uno strumento molto femminile, uno specchio di rame, metallo considerato celeste in quanto cattura la luce, e come oggetto rituale, sacro alla dea Hathor signora delle stelle e dell’amore universale.

Dunque Maria Letizia Avato, prima ancora di vedere il viso di suo figlio, si specchia in lui e intesse il dialogo che ci condurrà attraverso tutte le pagine della sua opera.

Un dialogo scandito da piccoli episodi che ne costituiscono i singoli capitoli. Episodi fatti di tenerezza, di timore, di speranza, di ironia e di complicità in un miracoloso equilibrio che non scade mai nel sentimentalismo o nel déjà-vu.

Molto delicata ed efficace la narrazione della propria esperienza di baby blues.

Particolarmente intensi sia il ricordo dell’attentato all'aeroporto di Fiumicino nel 1985 – episodio che l’autrice ricorda per se stessa in una sorta di autoesorcismo, ma che non narrerà mai al figlio – che quello dell’11 settembre 2001 nel quale all'innocenza del bambino fa da contrappunto il terrore della madre che vede cadere il suo mondo di certezze come avvenne per ciascuno di noi. Tuttavia è proprio nel gioco dell’uomo ragno contro il perfido goblin che la madre trova la forza per donare al figlio ancora una volta, la vita nel senso di restituirgli la serenità e spensieratezza che servono alla sua età.

Passati gli anni dell’infanzia e della presa di coscienza che divenire madre significa esserlo non solo per il proprio figlio, ma per ogni figlio degli uomini – bellissimo l’episodio del bambino ritardato – l’autrice passa dal ruolo di colei che tiene per mano il figlio a quello di madre che il figlio tiene per mano.

Gustosissimo in proposito, l’episodio dell’esperienza sulle montagne russe reali in un dialogo che sembra un atto unico condensato in poche battute fulminee che scolpiscono i sentimenti dei due protagonisti.

Anche le riflessioni sulle differenze e sui cambiamenti della società tra la giovinezza della madre e quella del figlio sono tratteggiati con ironico, immalinconito disincanto crudelmente consapevole dei compromessi e delle attese tradite.

Possiamo dire che il libro di Maria Letizia Avato è un crescendo di prese di coscienza, un’educazione sentimentale reciproca, in cui madre e figlio nella condivisione di esperienze e talvolta, anche nella difficoltà di capirsi – come si intuisce da pochi tocchi discreti – trovano però sempre un modo di incontrarsi e di prendersi per mano senza che l’uno prevarichi l’altro, ma come buoni compagni di via.

E se le vie talvolta, sono alte e impervie, se bisogna salire sulle montagne russe dell’accettazione e dell’incomprensione ma del rispetto costi quel che costi, l’autrice ci dimostra con la sua prosa efficace e incisiva, senza sbavature od orpelli, che l’unico modo per vincere il terrore di queste montagne russe che come genitori e come figli ci riguardano tutti, è scegliere la via del cuore e affidarsi a essa.

 

 

porte

 

(dalla presentazione di Maria Letizia Avato)

La porta…implica

Siamo sul confine, ai margini tra un qui e un lì, tra un vuoto e un pieno, un’armonia e un caos.

Sì, la Porta implica, essa sarebbe un assoluto nonsense privata dei suoi poli, dei suoi opposti.

Non sono forse in tutti noi gli estremi che inevitabilmente si toccano? E non possiamo forse dire che il punto di unione degli opposti può proprio trovare la sua espressione materiale e visiva nella Porta?

Ci sono concetti, pensieri e sentimenti che inevitabilmente fanno parte di ciascun individuo, come l’amore, l’amicizia, il coraggio e che al contempo convivono con la paura, il dubbio e la rabbia. Laggiù, nel profondo delle nostre anime si agita il tutto, ciò che siamo e persino ciò che non crediamo di essere.

La Porta è lì, a segnare i nostri confini, ora fortemente incardinata, ora scioccamente inclinata, ora volante e leggera come una piuma.

Noi stessi siamo la Porta dei nostri pensieri, il passaggio dei nostri umori, il confine dei sentimenti tumultuosi e contraddittori che spesso, persino selvaggiamente, ci attraversano.

Saranno le mille e una implicazioni che la Porta “comporta” ad avere immediatamente suscitato e calamitato l’interesse dei poeti da me coinvolti in questa avventura alla ricerca della propria visione della Porta? Una nessuna e centomila, verrebbe da dire, e così è stato.

 

Tutto cominciò dalle affinità, non apparenti, fra me e Romeo Albini, artista Beneventano, trapiantato da anni a Roma e la contestuale curiosità di sperimentarci su una tematica comune. Apparve così la Porta, tra i misteriosi, elettrici, energetici, imponderabili guizzi della mente, essa prese facilmente spazio, divenendo da subito il tema dal quale nessun’altra idea poté distoglierci. E Porta fu.

Elaborammo velocemente l’idea e in breve approdammo al progetto definitivo: avremmo fatto degli scatti fotografici in giro per Roma ritraendo, porte, portoni e portoncini, porte maestose e saracinesche, porte tombali, porte aristocratiche e misere porte. Al termine avremmo selezionato le immagini.

Nella prima fase del progetto Porte/Arte, abbiamo scelto sei foto e individualmente lavorato e reinterpretato ciascuna immagine; io, con un’elaborazione in digitale e Romeo Albini con la sua pittura a olio e tecniche miste, ottenendo così dodici opere, dodici porte sorelle, diciamo consanguinee ma, differenti.

Di concerto alla realizzazione di Porte/Arte, mi sono ritrovata piacevolmente inseguita e circondata dai concetti e dalle parole che la Porta implica e ho quindi alla fine messo a fuoco che il degno coronamento del tutto sarebbe stato coinvolgere gli amici poeti, scrittori e artisti chiedendo loro di creare ad hoc un componimento su tale tema.

L’adesione, come detto, è stata totale ed entusiastica e il coinvolgimento emotivo, come l’interesse per il tema proposto, hanno trovato concretezza e la più alta espressione, nei testi che compongono il presente volume. Il parterre dei partecipanti è ricco e variegato, mi perdoneranno quindi i puristi della poesia se ho voluto includere tra i nomi di alcuni tra i più noti e rappresentativi poeti del panorama Romano e italiano, quello di autori che non hanno pubblicato i loro testi (per motivi diversi e personali) o che sono prevalentemente dediti ad altre forme artistiche come pittori, attori o come la sottoscritta, che scrive prevalentemente in prosa e che maneggia da sempre con parsimonia la plume du poéme per una forma d’incondizionata deferenza.

Se permettete una personalissima digressione in merito, ho scelto prima ancora che il poeta o il suo componimento, la persona, affidandomi all’intuito e a quella sorprendente connessione che si stabilisce fra gli esseri umani.

Questa pubblicazione è un omaggio alla poesia e ai magnifici cavalieri senza macchia che desidero ringraziare uno a uno di cuore per avermi accompagnato in questa meravigliosa avventura creativa.

 

 

tempo

(dalla prefazione di Giorgio Patrizi)

 Il tempo e noi

Veritas filia temporis: motto che attraversa le sacre scritture, la cultura classica, il Rinascimento e giunge fino a noi, con un inappagato desiderio di enfatizzare –nella forma perentoria, assoluta- l’universo che ruota attorno all’antico mito di Kronos.

      Kronos è un titano figlio di Gea (la Terra) e Urano (il cielo), a cui il padre , assieme ai suoi numerosi fratelli, impedisce la nascita temendone la mostruosità. Spinto dalla madre, Kronos ancora nel ventre materno, evira Urano, durante l’amplesso di questi con Gea. Diventa il dominatore dell’universo e, genera numerosi figli, che tutti divora appena nati: un oracolo ha predetto che uno di essi lo scaccerà dal trono. Solo Zeus, partorito di nascosto e sfuggito così alla morte vive, e riesce a detronizzare il crudele padre.

      Il mito, raccontato da Esiodo nella Teogonia (VIII-VII secolo), ricostruisce la nascita delle divinità che popoleranno l’Olimpo. La spietata lotta tra le generazioni, ci narra l’origine violenta da cielo e terra di colui che dominerà, nel male  e nel bene (lo stesso Esiodo celebrerà, in Le opere e i giorni, la serena esistenza degli uomini sotto il regno di Kronos) le generazioni dei discendenti e delle divinità che si contenderanno la sovranità del mondo.  Kronos è figlio del cielo e della terra: il Titano ha le proprie radici nell'intreccio di basso e alto. Riesce a vivere con il gesto che toglie al cielo la possibilità di procreare. Gli uomini al cielo potranno guardare nel segno di Kronos (il Tempo), non in quello di Urano (l’assolutezza senza tempo). Da lì inizia un dominio che continua nella storia. Kronos non è soltanto dispensatore benefico dei frutti della terra, delle stagioni, dei ritmi familiari dell’esistenza. Ma è anche un padre crudelissimo che distrugge i proprio figli, temendo che questi possano sottrarsi al suo potere. Il Tempo dunque è nello stesso tempo fonte di vita e di morte, di nutrimento e di minaccia mortale. Il Tempo fa crescere e distrugge, inclemente verso gli stessi figli che ha messo al mondo.

      Dall'antico mito il fascino ambiguo del tempo prorompe in tutta la sua complessità. Per questo è un difficile oggetto di conoscenza per i filosofi, per i pensatori di tutte le epoche. Gli unici che sembrano avere il diritto (e la capacità) di gestirne le infinite sfaccettature sembrano essere gli artisti in generale e gli scrittori in particolare. Una teoria letteraria vuole che il tempo sia una modalità peculiare del comporre opere letterarie, perché ad esso fa riferimento la scrittura, la parola, la tecnica del narrare. Un filosofo francese, Paul Ricoeur, dopo aver attraversato i tentativi dei pensatori di tutte le epoche per fornire una descrizione efficace e duratura del tempo, si rivolge alla parola scritta (del racconto, ma il discorso si può fare anche a proposito della parola poetica, in una certo prospettiva lineare), come l’unica occasione in cui tempo si concretizza, prende sostanza.

      La logica del tempo costruisce la logica del ragionamento e del racconto. Ricordate? Hoc post hoc ergo hoc propter hoc. Il principio di causa è il modello, nel raccontare, del principio temporale. Solo questo possiamo dire per capire fino in fondo il significato del tempo: il lavoro della letteratura -della poesia come del racconto- costituisce una testimonianza fedele del problema che la dimensione temporale costituisce ponendola dinanzi alla vita, all'esperienza quotidiana, allo sforzo che tutti noi facciamo, nei momenti più diversi della vita, per capire che cosa veramente sia il tempo e come possiamo familiarizzare con esso, recuperarne il significato più profondo. E d’altra parte schivarne le insidie più pericolose, dato che -come sappiamo, credo, per lunga esperienza- il tempo non è affatto galantuomo, come suonava un vecchio detto, ma a volte può essere un giudice spietato, e la verità, che da esso discende, può essere null'altro che una inesorabile resa dei conti.

     L’antologia che Maria Letizia Avato ha messo insieme, con contributi di autori diversissimi, per impegno, cultura, linguaggi, esperienze, è uno specchio fedele di questa molteplicità delle facce del Tempo. Che non è soltanto quello del mito, che divora i propri figli, logorandoli in un’affannosa consunzione esistenziale, ma è anche il tempo gioioso che ci mette in sintonia con la natura, con le sue stagioni, che, ad uno sguardo sereno e gioioso, ci appaiono come la garanzia che il cerchio dell'esistenza continuerà ad inanellare il suoi giri.

      A partire dalla bellissima citazione da Seneca, “Breve è la vita che si vive davvero. Tutto il resto è tempo”, il percorso ci porta attraverso, le pagine bianche dove la realtà può “progettare se stessa” e il tempo trovare un “rifugio” (L. Argentino),nello spazio in cui si dissolvono le dimensioni del quotidiano per un’epifania dell’esistere concentrata in un unico punto (M. L. Avato), nei momenti rituali dello scorrere dell’esistenza (M.Casté, R.Ciminelli), allorché “si muore svuotando e regalando” i pegni della vita (C. De Angelis), con la coscienza di un eterno ritorno, quando “l’eterno rifrange il presente” (M. Belocchi) e si impara che “c’è un ritorno nei versi, nei sensi” (S. Di Lino). E dunque “ritaglia un tempo/ mettilo da parte” (C. Marulli), se  “il futuro era con me seduto/ Sopra il marciapiede” (M. Pacetti): è allora che appare ciò che “succede/ quando non succede nulla” (L. Raggi) e la speranza si consuma nell'immobilità: “Tutto è fermo e il tempo si è arenato,/tra questi miserabili ricordi” (F. De Girolamo).

      Tutto ciò per indicare un possibile percorso, ascoltando –ad apertura di libro-  solo alcune voci tra le 41 disponibili a fornire tracce, esperienze, prospettive. Un cammino che disegna vite e sentimenti, conoscenze, utopie, sconfitte. E quel Titano che divorava i propri figli ritorna ad inquietare le vite quotidiane di chi apprende, dinanzi alla minaccia più grande, che solo l’arte salva dal silenzio e dalla cancellazione. E la scrittura sola fa vivere ancora l’attesa e la durata, e la poesia continua, ancora a scandire il tempo, ad accoglierlo nel ritmo delle proprie parole, dei propri sensi. A renderlo familiare, non ostile. Anzi un mezzo per dare prospettiva, continuità del ricordo, futuro.

 

cammino

Quel cammino che ci apre la poesia (di Giorgio Patrizi)

La terza antologia della serie curata, amorevolmente e sapientemente, da Maria Letizia Avato, ha come titolo/tema “Cammino” e, dopo le raccolte intitolate alle “Porte” e al “Tempo”, chiude una trilogia che, pur nella molteplicità delle voci e degli approcci ai temi via via proposti, delinea un percorso ben definito e denso di significati, di umori e di colori. Con una prospettiva che sembra, ora, schiusa fin dal primo passo e quindi, successivamente, mantenuta saldamente: perché, se dalla porta si esce per affrontare il cammino, che porterà fuori e lontano, è il tempo che cuce, unisce, accomuna, come in un contenitore necessario, gli eventi, gli individui, le voci dell’universo quotidiano.

       In cammino, dunque, se la poesia traccia una strada, se il verso la segna graficamente, se la letteratura, come tradizione ed istituzione ne accompagna le circonvoluzioni, le tappe, le fermate e le ripartenze, gli arrivi. E’ che il camminare si pone come gesto ancestrale, raccontato dalla lingua della poesia, atto comune a tutti gli esseri viventi, che attraversa la divisione tra specie, razze, generi, come una primaria realizzazione dell’esistere. Il corpo in movimento mette in gioco, sempre, un rapporto dinamico con l’ambiente. E’ modo e forma di conoscenza. E’ storia di chi cammina e del mondo che attraversa. Di chi si muove e di chi sta fermo a guardare.

       La storia della letteratura, del pensiero, dell’arte è gremita di personaggi in cammino, talvolta di personaggi fermi ad osservare. C’è anche la grande metafora del naufragio con lo spettatore, che descrive Lucrezio, nel II libro del De Rerum Natura:  “guardare da terra il naufragio lontano;/non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina,/ ma la distanza da una simile sorte”. La saggezza come distanza consapevole dal rischio, dalla possibile rovina; sguardo sulla precarietà dell’esistenza.

     Ma, in contrasto, la scelta dell’ altra tipologia d’esistenza: appunto il cammino, la partenza –il distacco dalla nascita- e la tensione verso l’arrivo, metafora primaria del ciclo esistenziale, si affermano come le figure più proprie, più rappresentative e più consapevoli per raccontare la poesia, la sua costruzione e la sua essenza. Insomma, mi pare di poter dire, la poesia è il cammino. E questo, della poesia, descrive la natura più profonda, l’essere nomade, non aver patria, ma, pure, esser figlio di tutte le patrie possibili, di tutti i cieli e i mari che si attraversano o si contemplano o si conoscono, attraverso i viaggi fatti con i libri.

     E a scorrere alcune pagine –notissime- della storia della poesia, ricordiamo come, da sempre, viaggiare voglia dire esperire i percorsi più tipici dell’esistenza. Da Dante e Petrarca, che identificano la vita -ma anche l’esperienza della scrittura-  con un viaggio per nave; alle immagini, di straordinaria efficacia con cui è raccontato, ancora in Petrarca, il viaggio per eccellenza, quello del pellegrinaggio, il cammino del “romeo”, verso il cuore della cristianità, per contemplare il volto della Veronica (“Movesi il vecchierel canuto e bianco…”)  Mentre il più grande fra i moderni, Leopardi, riprendendo l’immagine petrarchesca, sintetizza, nella corsa insensata dell’uomo, la follia dell’esistere:” Vecchierel bianco, infermo…Per montagna e per valle…corre via, corre anela…senza posa o ristoro…”. E’ una tradizione rigorosa e costantemente presente nella nostra tradizione lirica. Una tradizione che insegna come la poesia si condensi proprio in questo atto, vitale per eccellenza.

 

       Questa antologia, dunque, è la chiusura di un percorso, riconoscendo, a questo punto di arrivo, il ruolo centrale della struttura complessa, che la curatrice Avato, ha delineato per sintetizzare la possibile dinamica di una pratica letteraria giocata sull’essenza del creare con le parole e con i concetti che esse veicolano. La dimostrazione dell’importanza di questa prospettiva è proprio nella molteplicità degli approcci al tema, delle rese stilistiche, dei linguaggi in atto. Ciò che qui è in scena è un repertorio ricchissimo di immagini: I bilanci di una vita e le prospettive utopiche di chi guarda verso le mete da raggiungere, grandi o microscopiche che siano (“piccole, infime mete/ microscopiche in fila,/ a reclamare uno sprazzo di vita” di cui scrive Maria Letizia Avato), per strade impervie (“Ci sono strade come spade/ che trafiggono le mete”: Cicchelli; “tu sai benissimo che ci unisce/questo andar raminghi,/ questo voler perdere la strada di casa”: Fulci) Le storie già narrate (“mi volgo nelle trame spente/ d’una storia già scritta”: Belocchi) o il nulla (“Il vecchio resta immobile/ davanti ai fiori color sangue/ con gli occhi aperti sul nulla”: Cipolletta), divengono possibili scenari del viaggio in atto; l’arresto e la ripartenza (“a espiar la colpa di aver troppo amato/ di aver troppo osato navigare, camminare”: Bagli; “andiamo avanti/ verso un sole/ che tramonta/ senza promessa/ alcuna di riscossa”: Carnovale; “paziente il tempo mi ha portato a te;/ nei piccoli dolori ormai sopiti”: De Girolamo);  il desiderio del volo (“la notte mi culla immaginare la gru/ che dispiega le ali e sicura scrolla/ via acqua e fango, verso un altro volo”: Colusso; “non tentare d’inesperto il volo alto/ ma quello di giusta opposizione al vento”: Della Posta); il salto nel buio, l’emozione del viandante notturno, simile ad un lupo solitario (“per linee curve e fratte mi apro/ senza certezze l’oscuro sentiero”: Casté) e la testimonianza del massimo testimone del viaggio e dei pericoli che esso porta con sé, Ulisse (“se pur cambia non l’animo, ma il cielo/ soltanto, chi corre i mari senza requie/ ora sai ciò che Itaca vuol dire”: Mazzurco). Insomma un universo quanto mai composito, in cui i testi poetici si dispongono come una policroma tastiera di sensazioni e di emozioni. Talvolta giocose, ma spesso drammatiche: questo per la maggioranza dei testi. E forse è tutto ciò il reale segno di tempi in cui il “cammino” non può non ricordare la precarietà e la provvisorietà del movimento. Anche se poi la poesia -con tutti i mondi che suggerisce e conserva- riserva, a questo camminare, la possibilità di offrirsi come un’azione che può portare la salvezza. 

 

 

Il curioso incontro delle parallele

Le parole tra loro

(di Lorenzo Pompeo)

 

Questa singolare raccolta di racconti di Marco e Maria Letizia altro non è che il sigillo di un  ménage à trois lì dove il terzo “incomodo” ospite è proprio la parola. E non è un caso che proprio La notte dell'Epifania,  il racconto dal più alto tasso di erotismo della raccolta, sia stato scritto a quattro mani (perfetto equilibrio tra la distaccata ironia di Marco e il tono incalzante, prevalentemente drammatico dei racconti di Maria Letizia). Le sfumature di grigio però, in questo e in molti altri racconti della raccolta, si fanno decisamente più scure. Infatti il tono noir è quello che prevale in questa silloge, che trova nelle due polarità, maschile e femminile, una gamma completa di risonanze e di tematiche.

Nei testi di Maria Letizia, e specialmente in Anima sola, è il monologo interiore il motore della narrazione. L'introspezione, nel particolare modo di procedere di Maria Letizia attraverso grovigli di emozioni, si imbatte qui nei frammenti di testi di una celebre lirica di Nazim Hikmet. Nel successivo La storia di Sophie, un io lirico femminile è il centro intorno a cui gira il monologo, uno specchio che restituisce i suoi ultimi istanti di vita, nei quali sembra passare un'intera esistenza. Il successivo Il testamento di Gilam è ambientato in un immaginario passato remoto, ma allo stesso modo vede un personaggio (questa volta maschile, ultimo superstite della propria tribù) che poco prima di concludere la sua avventura terrena tira le somme della propria esistenza e, allo stesso tempo, lancia ai posteri un monito e un allarme, che però contiene una speranza (“è ancora possibile salvare l'uomo” fa dire Maria Letizia al protagonista di questa storia). In Il mio vuoto il monologo si fa ancora più rarefatto e il protagonista assume le fattezze di un fantasma alle prese con i propri incubi mentre il successivo La poltrona è un raffinato intermezzo umoristico nel quale il monologo indaga una strana relazione tra una poltrona e il suo padrone. In Storiaccia la voce della protagonista è quella di una suicida pochi istanti dopo avere compiuto il tragico gesto mentre ne La goccia la protagonista è una donna che decide a un tratto di vendicarsi delle umiliazioni subite ad opera del suo partner, invertendo i ruoli servo/padrone. I fatti sono qui raccontati attraverso voce narrante della protagonista in un incalzante montaggio cinematografico che ricorda il celebre film di Polanski Luna di fiele.

Nei racconti di Marco la prosa assume un certo qual ironico distacco rispetto alle cose del mondo. REM – Progetto Artemidoro è un racconto di fantascienza “classico” (che si ricollega al filone del doppio inaugurato dal celebre Dottor Jekyll) nel quale Marco indaga sulle possibili conseguenze della scoperta dalla possibilità di pilotare l'attività onirica. In Reperti si assiste alla scoperta di reperti archeologici di natura cinematografica da parte di una civiltà umana appartenente a un remoto futuro, mentre in Su in cielo un angelo ateo disquisisce a proposito di filosofia, religione e cinema.

 

Malgrado le differenti angolazioni e la varietà delle tematiche, un punto che unisce tutti i racconti di questa raccolta è l'io del protagonista-narratore, perno fondamentale attorno a cui girano quasi tutti i racconti. Marco e Maria Letizia sono maestri nel rievocare le voci dei protagonisti dei loro racconti nel momento cruciale, quello in cui la loro vita sta per spegnersi, in cui l'angoscia di fronte alla ultima frontiera lascia il posto a una lucida consapevolezza. Il cinema sembra ispirare, direttamente o indirettamente, molti tra questi racconti: infatti lì dove non viene esplicitamente citato, la costruzione e il ritmo della narrazione, ricordano il montaggio cinematografico. Infatti il narratore onnisciente ha lasciato il posto al personaggio-narratore il quale, attraverso il suo monologo interiore (quella che nel gergo cinematografico viene detta “soggettiva”), racconta gli ultimi istanti della propria vita per trarre, implicitamente, il bilancio di una intera esistenza. E questo proprio perché, secondo quanto sembrano suggerirci Marco e Maria Letizia, il tragico destino dell'uomo in ciò consiste: una volta impigliato nelle reti dell'esistenza, cercando di liberarsene, non fa che stringere i propri lacci.